Olivier Adam, Scogliera: incipit

incipit di Scogliera

di Olivier Adam

 

 

 

Qui la notte è profonda e buia come il mondo. Oltre i vetri, separata dall’esterno e dalle scogliere, al riparo dal rumore del mare e dalla compagnia degli uccelli, Claire dorme e chissà dove andiamo. Chloé è tra le sue braccia, quieta e leggera contro il suo petto. Accendo qualche candela nella notte. Infilo la mano nel sacchetto trasparente, ne estraggo alcuni tondini di alluminio pieni di cera bianca. Accendo un fiammifero. Mia madre è morta da vent’anni. Esattamente vent’anni fa. Le scogliere si stagliano sul tessuto del cielo. In loro contemplo fantasmi, corpi che precipitano nella luce. Mi volto e sul vetro è riflesso il mio viso smunto, i miei lineamenti tirati, invecchiati prima del tempo. Claire apre gli occhi per un istante, Chloé si ficca il dito in bocca e le si incolla alla schiena. Mi accendo una sigaretta e l’estremità incandescente disegna un cerchio rosso, un punto luminoso tra il nero e il bianco. Sul balcone dove sto vegliando, due sedie a sdraio si guardano. Mi stendo su una delle due. Una coperta mi protegge dal freddo che scende e si fa più intenso. Il mio sguardo si perde verso ovest. Ho trentun anni e la mia vita comincia. Non ho avuto un’infanzia e una qualunque ormai andrà bene. Mia madre è morta e tutti i miei familiari se ne sono andati. La vita mi ha messo di fronte a una tavola rasa a cui siedo con Claire, e dove Chloé si è autoinvitata con un sorriso tenero all’angolo delle labbra. Ho trentun anni e la mia vita comincia così, persa nella notte marina. Alle mie spalle, appena più concrete di due ombre, meno dense di un po’ di fumo, Claire e Chloé mi guardano, la più piccola nascosta tra le braccia della più grande, entrambe immobili nel silenzio della camera d’albergo. Claire mi sorride e si riaddormenta, e i loro respiri si confondono. Qui la notte è profonda e fitta di gente. Mia madre cammina nella landa, come una fata sonnambula. Antoine e Nicolas,Lorette e gli altri ballano intorno alle fiamme, con gli occhi chiusi e la faccia rivolta al cielo. Léa è in piedi sull’orlo, in punta di piedi come su un filo, a un passo dal vuoto, funambola, equilibrista. Avevo undici anni quando mia madre è morta. Tre giorni prima usciva dall’ospedale e la luce abbagliava ogni cosa. Aveva trascorso gli ultimi sei mesi là dentro e noi non avevamo avuto il permesso di vederla. Lo stagno, le panchine in fila, la grande betulla che stormiva di fianco al fabbricato, l’abete al centro della distesa d’erba, i ciliegi in fiore, ho conservato di tutto un ricordo impreciso. La aspettavamo in macchina, mio padre al volante della sua Ford Granata grigia, io e mio fratello rannicchiati dietro in silenzio. La similpelle alveolata dei sedili si incollava al sedere, stampandosi sulle nostre cosce sudate. Mio padre tamburellava sul cruscotto con le dita, tormentava il gagliardetto del Paris Saint-Germain appeso al retrovisore, ogni tanto si voltava e ci ordinava seccamente di stare buoni, quando noi respiravamo appena. Antoine annuiva e io lo imitavo. Poi chiudevo gli occhi e il sole mi mordeva la guancia.

 

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