Alan Bennett, La sovrana lettrice: recensione

Cosa chiede il mondo ai lettori?

di Elisabetta Liguori

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“ Fu tutta colpa dei cani.”

Ecco come Alan Bennett, con il consueto brio, in questo suo ultimo breve romanzo, dà il via al cammino di un lettore tipo. Il primo passo. Sceglie un lettore speciale, quindi un cammino speciale? Non così tanto. È questa la forza di questo suo nuovo titolo “La sovrana lettrice” ancora una volta edito da Adelphi: il lettore narrato è d’eccezione, ma il suo percorso conoscitivo è simile a quello di tanti.

In ogni cambiamento, si sa, c’è sempre un momento riconoscibile come iniziale e determinante. Per Elisabetta II regina d’Inghilterra tutto comincia con il latrare straniato dei cani di Palazzo davanti alla piccola biblioteca circolante del distretto di Westminster. Arriva per lei così la prima lettura: frutto di un incontro casuale, di un dubbio, di una curiosità, di un momento di noia vuota.

Tutta colpa dei cani, dunque, e di uno sguattero dai capelli rossi che pare essere l’unico conoscitore dell’oggetto libro, lussuoso, temibile e sconosciuto, condotto segretamente da questo furgone viaggiante dal Westminster fino alla reggia di Elisabetta. Individuati quegli strani oggetti sul mezzo viaggiante, infatti, la regina non può esimersi dal prenderne in prestito uno. Il suo è un gesto regalmente dovuto, oltre che cortese. E’ quello il primo passo. Il primo incerto di un cammino arduo, ma comune. Un gesto semplice con il quale la regina arriva ad esprimere un’ involontaria e nuova specie di amore: per quel buffo pel di carota, per le cose che racconta, per la sua diversità, per la vastità dell’ ignoto di cui si fa latore inconsapevole e per il tempo perso.

Perché il tempo trascorso senza leggere è irrimediabilmente perso. Quel tempo perso diventa in breve per la sovrana una vera e propria ossessione e finisce per ridisegnare i confini di tutti i suoi impegni futuri. Per lei è come affacciarsi da una finestrella piccolissima su una vallata sconfinata, colma di tutto: uomini bestie eventi sogni e visioni. Per lei come per molti. Di diverso per la regina forse c’è la sensazione di aver guardato per decenni il proprio regno e il mondo intero in maniera errata, oltre che distratta, laddove per gli altri uomini comuni alberga invece solo il dubbio di non aver guardato affatto. La differenza sta forze nelle possibilità, nelle responsabilità.

La lettrice straordinaria di questo volumetto ha perso quasi 80 anni. Mica bruscolini. E’ più che giusto che sia così appassionata. Lei conosce la storia, le sue logiche evolutive meglio di chiunque altro, ha visto tutto e il contrario di tutto, ma non s’è mai fatta raccontare nulla da nessuno. Si trova quindi oggi a dover recuperare una miriade di parole ed emozioni altrui, e sembra pronta a farlo a costo di qualsiasi sacrificio. Per di più, mentre gradualmente si ammala di curiosità, si diverte come una bambina bulimica.

E’ da qui che prende forma il vero saggio di Bennett. La sua divertita dissertazione sui piaceri della lettura e le sofferenze del lettore divenuto abituale. Tanto è stato scritto sul tema, anche senza scomodare la regina d’Inghilterra, ma pare che il 2008 sia stato proclamato l’Anno del Libro e Bennett non può che farsi carico di questo preciso momento antropologico storico geografico per teorizzare adeguatamente le dinamiche di una fatica che ha alcuni tratti biblici e altri fortemente comici. Quella del lettore integrale, appunto. L’autore, inventando questa sua regina, tenta di ricongiungere il vertice alla base, di avvicinare il paradiso agli uomini, gli dei alla polvere e di farlo con allegria.

Perché leggere è allegria. Un’allegra infermità.

Come ogni patologia, anche l’amore per i libri comporta trasformazioni, genera sospetto, induce alla reazione, richiede contromisure, sviluppa energie sia negative che positive. Nello specifico, il primo problema che si pone all’allegro infermo, in un cammino che procede dalla sanità alla graduale e definitiva contaminazione, è l’assenza apparente di azione. Cosa fa chi legge, oltre a procurarsi i libri? Non è poco, sia chiaro, ma a volte può non bastare. La vita di tutti, e in particolare quella di un Sovrano, è rilevante solo quando misurabile in atti tangibili. Invece leggere si misura in pagine. Leggere non è agire, al più può essere un domandarsi. A volte un contemplare. Altre un dichiarare. Leggere è poi sempre espressione di una scelta, cioè atto configgente, parzialmente escludente. È espressione di una passione che predilige la forza dell’intelletto su quella delle mani. E, in quanto frutto di una scelta, può ledere l’immagine della Corona e dello Stato. Una scelta simile rischia di mettere in discussione la Magna Carta, addirittura, pizzica principi antichi secondo i quali i cittadini devono essere tutti ugualmente cari al sovrano e dallo stesso ugualmente tutelati. Chi regna deve restare primus inter pares. E per questo tutto deve essere ugualmente degno d’interesse per la regina. Gli scrittori, come i medici, come i commercialisti.

Una gran fatica, insomma.

Al contrario, la sovrana lettrice, divenuta sempre più caparbia, preoccupa la nazione. I volumi che la stessa porta con sé ad ogni appuntamento istituzionale vengono visti come ordigni pericolosi. Una sovrana dovrebbe fornire soluzioni, sintesi, ragguagli, serenità, sicurezza al suo popolo, invece Elisabetta II è sempre più svagata, affamata di non si sa bene cosa. La cronometria degli eventi salta, il protocollo va a farsi benedire. Nessun aiuto può provenire dalle sue letture ostinate, né certezze nuove o soluzioni. I suoi libri non garantiscono soluzioni a questioni di stato, ma solo selettive distrazioni.

La lettura, è vero, non chiude questioni, le apre. Ben lo sa il valletto rosso di sua maestà, lavapiatti rubato alle cucine per essere affiancato alla regina capricciosa come suo lettore sodale, consigliere dubbioso, inquieto amante della letteratura, soprattutto quella gay. Tra i due, come sempre accade tra lettori forti, si crea un’intesa, un’intimità che nulla ha a che invidiare all’amore. Un vincolo che è nello stesso tempo democratico ed elitario e del tutto incomprensibile all’esterno. Da questa amicizia il resto: il sogno di essere normali, di condividere e aprirsi all’umanità, di coglierla in ogni suo frammento, il desiderio di conoscere la faccia e l’anima degli scrittori amati e la conseguente delusione. A questo proposito, è esilarante la descrizione che Bennet offre degli incontri tra la sovrana lettrice e il mondo dei non lettori. Dei suoi goffi tentativi di convertire i sudditi, dando loro il buon esempio, e dello sforzo che compie costantemente per uscire dal suo involontario solipsismo interrogando il mondo ai suoi piedi.

All’esito di questo percorso, che nelle mani sapienti di Bennett diventa lieve, alcune domande risuonano categoriche e già annunciano quelle che verranno dopo, per la lettrice sovrana come per tutti i lettori.

Cosa si diventa dopo aver letto tanto? Si può recuperare il tempo perso? A chi giova farlo? E’ per rispondere a questi interrogativi che colui il quale legge solitamente finisce per prendere appunti. Lo fanno quasi tutti prima o poi.

Il merito di questo fulmineo libretto inglese sta dunque a mio avviso nell’aver efficacemente colto l’ipotetico lettore nel momento del suo stupore iniziale, poi in quello del suo piacere sommo e infine di averne denunciato le possibili, travolgenti o deludenti trasformazioni. Chi legge, infatti, cambia sempre in misura proporzionale agli scopi che si prefigge, alla quantità di libri che riesce a mettere in bilancio e alla vita fatta fino all’incontro con il primo libro. Cambia e continua a cambiare e, vittima di una sintomatologia standard, è compulsato a prendere nota dei propri cambiamenti per meglio comprenderli o condividerli. Più prende appunti, poi, più si nutre di sé, ma, pur godendo della propria solitudine, è soltanto in gruppo che riesce a dare il meglio di sé. Chi legge si condanna al conflitto e al contraddirsi.

Ho capito di essere malata anch’io quando ho letto uno dei capoversi di pag. 56. La sovrana, corrotta dai libri, ha perso interesse per la natura. Il cielo, il mare, le cascate del Niagara, le montagne rocciose, non contano nulla per lei, se non c’è di mezzo l’intervento dell’uomo, del suo intelletto, delle sue parole. Senza l’uomo è tutto una gran noia, sembra volerci dire Bennett.

Tra gioie e dolori, si arriva così all’ultimo step. Tra classici della carta stampata, fame insaziabile, interrogativi celati con frigido aplomb, appunti segreti e noia di Stato, Bennet si spinge fino alla scena finale e l’epilogo da lui scelto ha tutto il sapore di un manifesto etico, sviluppato in un clima carico di autentica suspance.

Perché chi legge ha la sua etica, come anche Ezio Raimondi spiega in un piccolo prezioso saggio (Un’etica del lettore – il Mulino 2007). Ciò implica l’esistenza di un percorso di letture corretto a cui ispirarsi e la creazione di un rapporto stretto tra lettore e scrittore, che rischia di trasformare il lettore puro e onesto in un soggetto inutile. Il libro è infatti quell’oggetto semplice e democratico, accessibile a tutti, che non fa distinzione tra lettore e lettore, che non guarda in faccia nessuno, ma che, una volta posseduto, obbliga ad una deduzione assoluta. Tale dedizione significa inerzia? Chi legge può diventare una sorta di colto dimissionario, di appassionato atrofico con grandi orecchie e grandi occhi ma senza le gambe o le mani? Cosa chiede il mondo ai lettori che i non lettori non possano dare?

Tutto questo sembra domandarsi Bennett nelle ultime pagine del suo romanzo: chi ne avesse voglia potrebbe tentare una risposta, ma solo dopo averlo letto.