Il mestiere dello scrittore: Intervista a Gaia Manzini

Manzini: Scrivere, il lavoro più bello

di Rossano Astremo

 

“Natalia Ginzburg diceva che scrivere non è mai una consolazione, né una compagnia: è un padrone. È vero: esige tantissimo, e spesso si dubita di essere all’altezza delle sue pretese. Quando sono io a scrivere, mi sembra spesso di camminare in territori sconosciuti, eppure a volte m’illudo di riuscire ad addentrarmi in luoghi bui che in altro modo mi sarebbero preclusi, di cogliere un senso che di continuo si sottrae, che è difficile da spiegare in modo razionale”. A parlare e’ Gaia Manzini, autrice dei libri “Nudo di famiglia” (Fandango), “La scomparsa di Lauren Armstrong” (Fandango – libro finalista al Premio Strega 2012), “Diario di una mamma in pappa” (Laterza), a breve in libreria  con il suo nuovo romanzo, “Ultima luce”, che sarà pubblicato da Mondadori. Per “Nuovo Quotidiano di Puglia” ci confida alcuni segreti del suo mestiere.

Quando e perché hai iniziato a scrivere?

“Ho sempre scritto, anche se per molto tempo in modo incostante… Quando avevo dieci anni sognavo di diventare una giallista e leggevo solo Agatha Christie. Durante le vacanze estive avevo ideato una trama piena di colpi di scena: ero molto soddisfatta, anche se in realtà faceva acqua da tutte le parti… Ricordo solo che l’assassino era il panettiere. Passati più di vent’anni da quell’estate, la scrittura è diventata invece una necessità fortissima: in un momento molto difficile della mia vita, si è trasformata in una fuga irrinunciabile. Era qualcosa che andava protetto, un luogo solo mio. Ma, nello stesso tempo, più la proteggevo, più la curavo, e più la mia scrittura chiedeva di essere letta da altri. Altri che non fossero amici o parenti (loro non si sarebbero limitati a un punto di vista letterario, ma avrebbero giudicato la mia persona attraverso ciò che scrivevo).

Qunado è avvenuto che questa necessità  personale avesse anche un suo pubblico?

Quello è stato per me un momento fondamentale: ha in qualche modo cambiato il corso delle cose. E così, certa di non ottenere alcuna attenzione, un giorno ho mandato un racconto a Nuovi Argomenti, la rivista letteraria. Era la prima cosa in assoluto che mi veniva pubblicata. Uscì nel 2008, credo. Il racconto s’intitolava Salmoni.

Segui un metodo rigido nel tuo processo di scrittura?

Per molto tempo ho scritto di sera perché di giorno lavoravo in un ufficio. Tornavo a casa, mi preparavo un piatto di cracker e formaggio, e mi mettevo davanti al computer. Ma non resistevo a lungo. Il momento migliore per la mia capacità di concentrazione è la mattina, dopo la colazione e una doccia. Sono una fan dei metodi rigidi (i metodi sono sempre e solo rigidi) e della dedizione. La dedizione per me è una forma d’amore. Non tutti i giorni, però, si ama allo stesso modo, con la stessa intensità; ma è comunque una pratica quotidiana. Non scrivo sempre, a volte rileggo oppure smonto quello che ho scritto nei giorni precedenti. Durante questa pratica quotidiana capita che si sprigioni un’energia particolare, viene fuori dal lavoro stesso, ma non so se chiamarla ispirazione. Non è una parola che amo.

Scrivere ha migliorato o peggiorato il tuo percorso di vita?

“In generale, la letteratura è un piacere che continua a ridisegnare i suoi confini. Il piacere di comprendere, grazie ai grandi libri, le grandi questioni dell’esistenza umana al di là delle astrazioni. Il piacere di scoprire quanto alcuni libri ci leggano dentro, e riescano a parlare direttamente al nostro cuore… La scrittura invece è una questione più complessa, almeno nel mio caso. … Quindi per rispondere alla domanda, la scrittura e la lettura non so se abbiano migliorato la mia vita, sicuramente l’hanno resa prismatica, piacevolmente complessa e sfaccettata”.

In che modo costruisci i tuoi libri?

“Di solito (nei racconti come nei romanzi) mi piace partire da un personaggio. Magari mi affascina per un dettaglio fisico o caratteriale, per un tratto psicologico, ma non so mai tutto di quel personaggio. Anzi, all’inizio, è importante per me non avere una visione chiara, sentire che il personaggio mi sfugge: devo essere sedotta da quello che vedo, ma soprattutto dalle sue parti in ombra. Incomincio a scrivere per conoscerlo, per metterlo a fuoco. Più lo conosco e più la storia cambia, prende nuove pieghe, chiede di essere riscritta da capo, con un tempo verbale diverso, magari in terza persona invece che in prima. Arrivare alla stesura finale è una specie di esplorazione. A volte l’esplorazione può essere lunga e parecchio disagevole, ma ne vale sempre la pena”.

Quali sono i libri che ti hanno dato la spinta necessaria per affrontare il mondo della letteratura da scrittore?

“I libri che amo di più sono quelli che mi hanno dato la spinta per affrontare la letteratura da scrittrice. O meglio, un grande libro è sempre un libro che riesce a toccarmi profondamente, e spesso riesce anche a mettermi la voglia di fare lo stesso, o almeno di provarci… Ecco perché quando mi si chiede dei libri amati, io in realtà penso subito ai personaggi che ne fanno qualcosa d’indimenticabile”.

Qualche nome?

“Emma Bovary, Felicita “cuore semplice”, Anna Karenina (ma anche Karenin), Levin e Kitty, Pierre Bezuchov, Stavrogin, il console Firmin, Drenka Balich, la signora Ramsay (più della Dalloway), Nick Shay, Riccardo Reis, Jacques Austerlitz, Oscar Amalfitano, papà Goriot, Gatsby, Hans Castorp e Peeperkorn, Quentin Compson, Dell Parsons, Theo Decker, Santiago Zavala, Molly Bloom, James Incandenza … ma anche Lida Mantovani, Zeno Cosini, Renzo Tramaglino, tutte le donne forti e ingenue di Natalia Ginzburg. Ma potrei continuare a lungo… Certo, la letteratura è molto altro, è soprattutto stile e lingua – stile e lingua che non possono essere separati dal contenuto. Un grande libro mette insieme tutto, ma col pensiero torno spesso ai personaggi, all’abilità stilistica e alla sensibilità di quello scrittore che ha saputo rendere la complessità del loro animo, le loro contraddizioni. Ha saputo farli uguali a me che li leggo, seppur diversissimi”.

In questa non proprio facile del mercato librario italiano, cosa ti piace e cosa non ti piace dell’editoria italiana?

“È una domanda complessa che richiederebbe una risposta altrettanto complessa… In generale mi piace quando un editore riesce a far arrivare al cuore dei lettori un libro importante. Penso a quello che per esempio ha fatto L’orma con i romanzi di Annie Ernaux, ma anche Feltrinelli con Zeruya Shalev, Rizzoli con Donna Tartt… C’è sempre un momento in cui la dedizione di tanti confluisce verso il lavoro che fino a quel momento è stato di una sola persona, dello scrittore. È sempre un incontro importante, uno scambio di flussi energetici e di idee. È il momento che, dentro di me, chiamo “frizzante”. Certo, ci vuole tempo. È quello a mancare la maggior parte delle volte: il tempo consente di valorizzare il libro, non lo scrittore, il personaggio pubblico, il presenzialista. Mi sembra che spesso capiti il contrario”.

Articolo apparso oggi sulle pagine del “Nuovo Quotidiano di Puglia”

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